domenica 20 giugno 2010

vacanze di ripiego o vacanza che non fà una piega?

Oggi segnaliamo questo blog di una "turista per caso" che ha scoperto Viserba per caso. Vi consiglio di visitare il suo sito anche per le bellissime foto e anche perchè fà piacere che qualcuno faccia considerazioni sul ns. ameno luogo di villeggiatura. Se aggiungete che ha scoperto anche le ns. amiche Danda e Cristella ecco che si chiude il cerchio. Grazie Nora e ti aspettiamo sul ns. sito.


lafelicestagione.blogspot.com

domenica 13 giugno 2010

1944-1945 LA RESISTENZA di Vincenzo Baietta
(4° classificato al XVIII concorso di poesia dialettale “Giustiniano Villa”


Sas sparguiun ma tèra,
omni, strazid, tradid, umiglid, in guera.
Moschi, muscun, bdôcc, zanzeri e polsi
Cl’it magna.
Sorg, a cungrès sl’asa de furmai, senza furmai,
jà decis, j’andrà in campagna.
Vecc,
chi va lèta sa dò radècc.
Veci,
c’l’fa claziòn
s’un urazion.
Burdlin,
chi pianz la fema, purin,
drèinta un casèt
cuj fa da lèt.
Brazi, sempra piò stili, c’al lòta,
al smòv la tèra, al tin bòta.
Tenta pora zènta
Ch’jà strisè ma tèra la pèla
per mez piat ad pulènta,
un quadret ad pida,
un mond piò gióst,
‘na vita piò bela.


Sassi, macerie,sparsi per terra,
uomini,straziati, traditi, umiliati in guerra.
Mosche, mosconi, pidocchi, zanzare e pulci
Che ti mangiano.
Topi, a congresso, sull’assa del formaggio,senza formaggio,
hanno deciso andranno in campagna.
Vecchi,
che vanno a letto avendo mangiato un po di radicchio.
Vecchie,
che fanno la colazione con una preghiera
bambini, che piangono dalla fame, poverini,
dentro un cassetto
che gli fa da letto.
Braccia,sempre piu’ magre, che lottano,
smuovono il terreno, tengono botta.
Tanta povera gente
Che ha strisciato in terra la pelle
per un piatto di polenta
un pezzo di piada,
un mondo piu’ giusto
una vita piu’ bella.

Dall’intervista a Vittorio Corcelli


Di Marzia Mecozzi per L’Ippocampo

“Il Jazz è quella musica che, quando l’ascolti, non puoi fare a meno di muovere i piedi…”

Sabato 12 giugno, all’ora dell’aperitivo, è il famoso Vittorio Corcelli, l’Uomo del Jazz, a presiedere il tavolo della memoria. Della redazione di Ippocampoviserba ci sono Marzia, Maria Cristina, Loredana, Paolo e Nerea con la partecipazione e supervisione del presidente, Pierluigi.
Il luogo è ideale: l’angolo riservato agli eventi culturali del Cafè Matisse di Viserba.
Il caldo estivo toglie il fiato, ma qualche nota, qualche celebre frase dal repertorio swing ci scappa, ogni tanto, ad intonare il ritmo delle chiacchiere in libertà. Lui conduce.
La voce dalla dizione elegante ci riporta agli anni della Publiphono, Polo Nord-Ovest, dagli annunci pubblicitari a quelli dei bambini sperduti (che sembrano quelli dell’isola di Peter Pan e invece sono i piccoli bagnanti dispersi sulla spiaggia affollata).
Qui di seguito, riporto uno stralcio dell’intervista alla quale, nei prossimi giorni, Maria Cristina darà veste definitiva di articolo.

Vittorio è un artista, di quelli veri, che artista ci nascono. Lui è nato a Fano nel 1928, ed è arrivato a Rimini, con la sua famiglia nel 1941 seguendo il lavoro di suo padre che era procuratore delle imposte. A Villa Verucchio, dove la famiglia si era rifugiata in tempo di guerra, conosce il maestro Pazzini, musicista e autore di operette per ragazzi, che organizza il festival canoro per esordienti  dal titolo “L’ora del dilettante”, e si scopre cantante.
Finita la guerra, la voglia di ballare sembrava una febbre contagiosa, la gente aveva voglia di buttarsi alle spalle tutte le brutture che si erano consumate negli ultimi, tristi, anni. Si ballava intere nottate, perché, per via del coprifuoco, entravi in sala alle otto di sera e ci uscivi alle otto del mattino dopo!
“Le mie canzoni si differenziavano da quelle degli stornellatori di allora, di Claudio Villa, di Consolini… - dice Corcelli – Io avevo il mio mito in Natalino Otto, uno swing man di quelli autentici e ne riproponevo il ritmo, l’allegria. In quelle lunghe notti, quando il sonno cominciava a farsi sentire e c’era anche chi dormiva sul tavolo da bigliardo, le mie canzoni riuscivano a tenere tutti svegli…”
Nell’estate del 1946 fu inaugurato a Viserba il Garden Ceschi. “Ero amico di Marcello, figlio del Patron Ceschi, - racconta – Io avevo solo 18 anni, avevo vinto il Festival di Voci Nuove e Mario Latilla, grande personaggio legato al mondo della radio, mi valutò giusto per quel ruolo. Mi proposero 1500 lire a settimana. Mio padre mi diede il permesso, a patto che il signor Ceschi, finita la serata, mi riaccompagnasse a casa…”
L’anno successivo nacque la Villa dei Pini, il locale che rimase sempre un punto di riferimento, a Viserba, della bella società. Il suo ideatore era Gianni Nicolò, uomo ‘della notte’, capace patron di diversi locali alla moda, fra questi anche La Casina del Bosco. “Gianni mi aveva voluto alla Casina del Bosco con l’orchestra di Bruno Martino – ricorda Corcelli – successivamente, ho cantato alla Villa dei Pini per quattro estati, tutte le sere. Era il locale più esclusivo di Viserba, dove venivano organizzate grandi feste dai nomi esotici Notte a Parigi… La Bella Forestiera…”

… Il seguito alla prossima puntata.

venerdì 11 giugno 2010

Serata all' Ippocampoviserba


Giovedì 10 giugno. Poesie di Vincenzo Baietta, immagini di Francesco Protti e il progetto del gruppo scout Viserba, reparto Stella Polare, Squadriglia Puma.
Marzia Mecozzi per L’Ippocampo


“…Topi a congresso, sull’assa del formaggio, senza formaggio
hanno deciso, andranno in campagna.”

La poesia ‘di guerra’ di Vincenzo Baietta (in dialetto; qui soltanto una bella frase della traduzione in italiano) apre la serata dal ritmo incalzante, di giovedì 9 giugno. Sono versi sciolti in lingua romagnola, elegia di una miseria sobria e dignitosa, divisa coi topi (di città) in quell’agosto del ’44. Sono versi che, nella traduzione italiana non perdono d’efficacia, dove la tristezza amara della condizione, non dispone l’animo alla resa, ma induce al sorriso (ironia della sorte) alla maniera Baldiniana. Bravo Professore. Ma soprattutto, bella brigata, ieri sera, quella dell’Ippocampo! con alcune visite a sorpresa.
La prima: quella della delegazione del Gruppo Scout Viserba, reparto Stella Polare, Squadriglia Puma. Loro sono: Marika Russo, Antonella Grassi, Arianna Urbinati, Sara Tonini, Virginia Nitto e Alice Maltoni. Il gruppo, frizzante e dolcissimo, che si è presentato portando piadine e bevande per tutti, ha elaborato la Specialità CIVITAS, dedicata alla conoscenza del proprio territorio e la loro indagine, confluita in un bel video di interviste, mostrato ieri sera alla riunione dell’Associazione Ippocampo, ha coinvolto i loro nonni Luciano Tonini, Giuseppina Marisa Zanzani, Rino Magnani e Teresa Guidi.
Gli abbiamo domandato quale sia la cosa emersa da questi racconti, che le ha maggiormente colpite. “Mi ha colpito l’amore della nonna per il mare, - dice la tredicenne Sara - in tutti i suoi ricordi, lei ha parlato del mare… sempre.” Arianna aggiunge: “Mi hanno colpito i ricordi della guerra. E poi una cosa buffa: la nonna non aveva mai visto persone di colore prima dell’arrivo degli americani! Quegli uomini così diversi, le sembravano arrivare da un altro pianeta. Un’altra cosa che mi ha colpito, - prosegue Arianna – è stata la povertà. Il nonno (Rino Magnani), racconta che veniva da Borghi a piedi per andare a scuola, e che il suo amico veniva da ancor più lontano, ma partiva presto la mattina pur di fermarsi a casa sua e farsi fare un panino dalla mia bis nonna. La famiglia di quel ragazzo mangiava una sola volta al giorno… Quel panino valeva bene il sacrificio di allungare ulteriormente il percorso per arrivare a scuola.”
Bravissime ragazze! Ma soprattutto, che piacere la presenza del Presidente del Comitato Turistico di Viserba,  Francesco Protti.con le sue straordinarie immagini della Viserba antica. Scorrono nella proiezione scorci inusuali, vedute da prospettive isolite, panoramiche della spiaggia, del lungomare, della ferrovia… Spazi aperti, campi, acqua, cantieri, ville ancora in costruzione, abiti dalle fogge dimenticate, facce d’antan, ombrellini parasole e i primi alberghi: l’Albergo Principale, l’Albergo Stella d’Italia e il Caffè Concerto coi paralumi di bambù, dove si era esibito anche Secondo Casadei, l’Albergo Bologna, l’Albergo Roma Spiaggia, il Kursaal del quale Francesco possiede scatti da tutte le angolazioni…
E poi, addirittura una intervista registrata, con la viva voce di Gino Ernesto Acerbi, fotografo sulla spiaggia di Viserba fin dagli anni Trenta… Fotografo ‘ambulante’ dei villeggianti.
Eccone un piccolo stralcio.
Domanda: Cosa ti ha portato a Viserba?
Risposta: è stato il capo cancelliere del tribunale di Roma, lui mi ha trascinato a Viserba, perché ci veniva da anni…
Domanda: Come andava l’attività?
Risposta: Quella volta, la stagione era corta… c’era la miseria, si tirava giusto fuori la giornata. Oggi il lavoro da fotografo c’è per tutto l’anno…  io sono andato in spiaggia per settanta anni…
Domanda: Ricordi qualche personaggio famoso?
Risposta: Mi ricordo della Signora Matteotti, la moglie del deputato socialista. Qui le case erano tutte di generali, deputati, signoroni…

Questo è un esempio di alcune delle nostre serate…
Adesso ci prepariamo a ricevere gli ospiti bagnanti, amici estivi coi quali trascorreremo le migliori ore dell’anno… se volete approfondire insieme a noi dell’Ippocampo le storie viserbesi, a luglio e ad agosto ci potete trovare il martedì in piazza Pascoli.

lunedì 7 giugno 2010

Maria Cristina Muccioli per Associazione Ippocampo
Ho trovato on line questo interessante articolo su Viserba. Il “mito” della Sacramora e di san Giuliano viene letto in chiave più realistica di quella che tutti conosciamo: probabilmente dovremo storicamente approfondire, magari con l’aiuto di qualche studioso più referenziato di noi, che siamo semplici appassionati e curiosi.
Nell’articolo c’è lo spunto anche per raccontare un famoso ospite, Enzo Ferrari, che fino al 1963 aveva una villetta a Viserbella (v. foto). Anche questo approfondiremo, promesso!
casa_ferrari.jpg
Articolo pubblicato sul sito www.perfettaletizia.it

Viserba è una località balneare situata a 5 km a nord di Rimini.
Il nome Viserba deriva da “vis herbae”, che significa “abbondanza, floridezza, forza dell'erba”. Tale etimologia trova il suo riscontro nella situazione territoriale dove Viserba si costituì come nucleo abitato. Era una terra alluvionale prodotta dalle esondazioni del vicino fiume Marecchia, che avevano lasciato zone di strati di argilla organica e torba argillosa, nonché strati sabbiosi. Nel sottosuolo era poi presente un falda acquifera che vicino alla costa addirittura si esprimeva in polle zampillanti di acqua dolce. Dunque terra, sole e acqua erano la situazione ottimale per gli ortaggi.
La bonifica dagli acquitrini formati dalle deviazioni del Marecchia venne affrontata dai romani, che trattarono la zona con il sistema della centuriazione lungo la via Flaminia (220 a. C.). E'  da collocarsi in questo la genesi del nome Visherbae per quell'area.
 

Successivamente, le invasioni barbariche crearono grandi difficoltà per gli insediamenti della centuriazione. A ciò si aggiunse una situazione climatica problematica fra il IV e l'VIII secolo con abbassamento delle temperature e un aumento di piovosità con conseguente innalzamento del greto del Marecchia e quindi nuove esondazioni, che producevano acquitrini. Ci fu poi nel X secolo una rotta del Marecchia che produsse un ramo che sfociava sulla spiaggia di Viserba.
In seguito venne realizzata l'opera di bonifica dei monaci benedettini di San Vitale a Ravenna, che condussero i lavori di bonifica fino a Cattolica.
Viserba, che allora era più a monte, nella forma di un piccolo paese fatto di umili case di agricoltori e pescatori, poté così resistere a tante calamità. Attorno a Viserba i terreni erano incolti, con vegetazione spontanea, con dune sabbiose, ma a Viserba non mancavano gli orti e anche il commercio delle verdure trasportate al mercato riminese con un carro chiamato “veherba”, che vuol dire “trasportatore di erba”.
Nel 1885 si assistette all'inizio di un risveglio dell'area viserbese  e agli inizi del 900 un ingegnere bolognese si fece promotore della valorizzazione del paese vedendovi la possibilità di magnifiche ferie marine. Non c'era la luce elettrica, ma tanto silenzio e tanto mare. Nel 1908 c'erano già un centinaio di villette, e da queste nascerà il termine “villeggianti” a designare chi passava l'estate nelle località marine. Nel 1909 Viserba ebbe una stazione ferroviaria della linea Rimini, Ravenna, Ferrara, Venezia, che era stata costruita a partire dal 1889.
Agli inizi del 1900 gli abitanti di Viserba erano 611, ma nel 1936 erano già 3150.
 
La guerra del 15-18 divampò in breve. La notte del 23-24 maggio 1915 la massa oscura di un dirigibile passò sopra Viserba per raggiungere Rimini al fine di indirizzare l'artiglieria delle navi austriache che si stavano collocando davanti al porto. Un uomo di Viserba vide la massa scura volare sopra di lui e preso un fucile sparò tutte le cartucce che aveva, ma senza risultato. Il giorno dopo Rimini era bombardata dalle cannonate.
Si aggiunse un terremoto nello stesso mese di maggio. Giunsero a Viserba migliaia di profughi dal Veneto alla ricerca di cibo, di una sistemazione. Furono momenti durissimi per tutti, poi la pace e la ripresa del cammino verso la valorizzazione di Viserba come luogo turistico marino. Nel 1926 sorsero due Hotel, tre alberghi, venti pensioni.
Il prolungamento del molo di Rimini e il conseguente influsso sul moto ondoso e un fenomeno di bradisismo cominciarono ad erodere la spiaggia di Viserba così che nel 1935 si cominciò a provvedere alla costruzione di scogliere frangiflutti.
 
L'ultima guerra non toccò in maniera particolare Viserba.
Il fenomeno dell'erosione della spiaggia proseguì con intensità nel 1947-48 così nel 1950 venne completata la scogliera frangiflutti.
I frangiflutti crearono un effetto di intimità della spiaggia col loro senso di protezione. Oltre la scogliera attraverso larghi spazi c'era il mare aperto e le barche vi si avventuravano per la pesca e per il diporto.
Una fonte dava particolare notorietà, quella detta “Sacramora”. Le bottiglie con l'acqua “Sacramora”, con sopra il nome di Viserba arrivarono in tutta Italia, mentre alcuni rubinetti della fonte erano aperti al pubblico. Ora la fonte è stata chiusa per rischio di inquinamenti. Il nome “Sacramora” vuol dire  “sacra sosta”, e risale al rinvenimento delle ossa di san Giuliano martire.  Il ritrovamento è avvolto dalla leggenda, già formulata nel 1152. Le ossa del martire sarebbero giunte a riva dentro un sarcofago di marmo (1,50 m. di altezza e 2,00 di larghezza) che galleggiò, circondato da luce, dal Proconneso (Elaphonesos o Neuris) nel Mar di Marmara, fino alla riva adiacente la fonte. Un fondamento storico esiste. Quello che si può dire è che le spoglie di san Giuliano, originario di Istria e figlio di un senatore greco, vennero trasportate da qualche nave cristiana dal luogo di sepoltura andato in rovina, ripromettendosi di ricavarne un lucro. Le reliquie non furono accettate dalla Chiesa riminese poiché era commercio del sacro e ci fu quindi una sosta delle reliquie (“Sacra sosta”); in tal modo si spiega come le reliquie non poterono essere trasportate nella cattedrale. Sfumata la possibilità del lucro le reliquie trovarono sistemazione in un sarcofago di epoca romana nell'abbazia benedettina dei santi Pietro e Paolo immediatamente fuori delle mura di Rimini; e qui cominciarono i prodigi e i miracoli operati per l'intercessione del martire.
A dare un prestigio a Viserba contribuì anche nel 1950 il commendatore Enzo Ferrari, fondatore della casa automobilistica di Maranello.
 
Il commendatore si era fatto costruire una villetta ad un piano a ridosso della spiaggia. Viserba vide i piloti della Ferrari andare spesso in visita al commendatore. Questo fino al 1963, poiché dopo il commendatore rimase sempre nel triangolo Modena, Maranello, Fiorano.
A Viserba le iniziative sono continuate e così è stata realizzata la famosissima “Italia in miniatura” con oltre 200 modellini dei monumenti più famosi d'Italia, su di un percorso di 720 metri, percorribile in un paio d'ore.
Gente buona quella di Viserba. Gente che si è fatta da sola con sacrificio, sostituendo pian piano le vecchie case adattate all'accoglienza con alberghi, non alberghi grandi, ma piuttosto pensioni con calore familiare. Gente che ha i segni di un'onda di fede che viene da lontano e che è stata rilanciata di generazione in generazione. Questa onda noi abbiamo voluto rafforzare e rilanciare verso il futuro.

Bibliografia
Autori vari: “Viserba... e Viserba”. Editore Luisè, Faenza, 1993.
Parrocchia Santa Maria: “...Brevissimi cenni storici su Viserba”, 2007.
Giulio Cesare Mengozzi: “San Giuliano e Rimini”, 2004.

venerdì 4 giugno 2010

intervista a Fis-cioun per Ass.IPPOCAMPOVISERBA

Alfredo Grossi? No, è Fis-cioun, “il pescatore” di Viserba
(di Maria Cristina Muccioli – 2 giugno 2010)

Duvè ch’e’ sta Fis-cioun?
Volta so in via Rossini,
a sinéstra po’, la sgonda,
ta t’ trov òna ad cal stradini
ch’la è ziga, che la n’ sfonda.
T’void a destra una capana,
un ch’e’ sbòffa m’un fugoun,
un mòcc’ ad zenta cla sgulvana
e t’si arvat! Ui stà Fis-cioun!

(Dove sta Fischione? Volta su in via Rossini, a sinistra poi, la seconda, ti trovi una di quelle stradine, che è cieca, che non sfonda. Vedi a destra una capanna, uno che sbuffa ad un focone, tanta gente che si abbuffa. E sei arrivato! Ci sta Fischione!)

Le indicazioni per trovare la casa di Fis-cioun erano in un angolino della memoria grazie a questa poesia di Vittorio Valderico Mazzotti ascoltata più volte dalla viva voce dell’autore. Insieme agli altri della troupe dell’Ippocampo (Nerea, Paolo e Loredana) ci siamo presentati puntuali, un sabato pomeriggio di maggio, accolti dalla proverbiale ospitalità di Fisc-cioun: non poteva mancare un bicchiere di vino (ottima albana passita “comprata personalmente a Bertinoro”) accompagnato da cioccolatini e biscotti.
Sì, perché Alfredo Grossi, detto Fis-cioun, a Viserba e non solo è conosciuto per aver fatto sedere alla sua tavola mezzo mondo. Come scrive l’amico Mazzotti nel libretto che gli ha dedicato nel 1996… “Nella sua capanna, a Viserba, per diversi anni sono passate non solo molte persone, ma moltissime personalità altolocate che si sono… leccate i baffi (è proprio il caso di dirlo) divorando e, come dico io, ‘rudénd i dint’, davanti alle specialità preparate dai due coniugi sempre disponibili e simpatici come nessun altro.”
Mazzotti parla di “coniugi”: in effetti fino a poco tempo fa i “Fischioni” erano due. Ines, l’amatissima moglie di Alfredo è scomparsa recentemente. Una metà che manca. Si capisce subito, all’inizio dell’intervista. Fis-cioun, infatti, esordisce mostrando l’album dei ricordi, con le immagini degli oltre sessant’anni passati insieme alla sua Ines.
Un viaggio fotografico che inizia con scatti in bianco e nero di lui ragazzo, appena ventunenne. Poi il viaggio di nozze a Roma, nel 1947. I figli, arrivati presto: Giancarlo, Diego, Luisa… Una foto del 1952 ce lo mostra in Argentina, un’altra sulla giostra a Montevideo.
 “Mi sono imbarcato giovanissimo – racconta Fis-cioun – Per quattordici anni ho girato il mondo, ma fra navigazione sulle grandi rotte e motopescherecci in Adriatico ho fatto ben cinquantadue anni di mare! Guardate le mie braccia. Questi sono i segni dei legamenti rotti per tirare su le reti. Non c’erano mica i verricelli come ora!”
Fis-cioun era fuochista sulle petroliere. I suoi racconti parlano di una vita dura, mesi e mesi lontano dalla famiglia.
 “L’imbarco più lungo durò 33 mesi: partii che mio figlio Giancarlo aveva appena quattro giorni e quando finalmente tornai, quasi tre anni dopo, lui non mi voleva vedere. Era spaventato, non mi conosceva! I contratti erano inizialmente di 18 mesi, poi venivano prorogati. Se non si era nel Nord Europa non si poteva tornare a casa in licenza. Quella volta potei venire a salutare la famiglia perché, finalmente dopo mesi e mesi in Asia, arrivammo in Olanda. Quando morì mio babbo, avevo 23 anni, lo venni a sapere sei mesi dopo. Ero in Giappone e a quei tempi non c’erano i telefonini! Una volta feci un viaggio da Baltimora fino a Odessa, in Russia, per caricare dell’orzo. Proseguii fino a Danzica per un altro carico, poi fino al Giappone e poi ancora fino in Cina per caricare qualche tonnellata di riso. Che vita… Però si guadagnava bene. Ricordo un assegno di 800mila lire, che a quei tempi erano tante, che però in banca, a Viserba, non mi vollero pagare perché era intestato a mia moglie. Spesso erano la Ines con i bambini a venirmi a trovare nei porti dove arrivavo: più di una volta mi sono venuti a salutare a Venezia, Genova, Taranto. Stavo tranquillo, a casa c’era con loro mia suocera Checca. Gran cuoca! Ma la figlia ancora di più! La casa della Checca era sempre aperta, ospitale. Spesso c’era gente sconosciuta a tavola. ‘Ma dai, Fis-cioun – diceva – Non hanno i soldi per fare la spesa, ò fat du strozaprìt in piò, sa vut che sia? (ho fatto due strozzapreti in più, che sarà mai?)’.”
Se la storia di Fis-cioun fosse un musical, si dovrebbe proprio intitolarla “Aggiungi un posto a tavola, che c’è un amico in più…”.
Questa caratteristica è diventata proverbiale. Provate, se non ci credete, a fare il suo nome dalle parti di Viserba: Fis-cioun vuol dire tavolate di gente festosa, vuol dire buon pesce, vuol dire spiedi intagliati nel legno di tamerice e infilati verticalmente su di un letto di sabbia, mentre la brace, ingabbiata al centro di questo cerchio magico e profumato, li cuoce senza toccarli.
“Un sistema tipico dei marinai – spiega Fis-cioun – Fra le cuccette c’era un paranzale, col suo portellino (e’ stènt, cioè il boccaporto), che fungeva da cucina. Lì preparavamo i brodetti e le grigliate… Con quello che pescavamo: triglie, calamari, canocchie, sogliole. Allora sì, che ce n’era! Mica come adesso, che con tutte quelle barche enormi hanno spopolato il mare! Il mio fuocone personale, poi, me la sono fatto costruire da Baietta. Ma lo sapete quanto m’è costato? Un milione e duecentomila lire! E’ un pezzo da museo. A dire il vero, ho regalato molti dei miei attrezzi da pescatore al museo di Viserbella, ‘E’ Scajon’. Tanto, io ho smesso di andare a pescare…”
Le pagine dell’album fotografico scorrono. Per ognuna un ricordo, una frase, il nome di un amico…
“Ecco, questa è la mia prima barca da pescatore, la ‘Fidel Franco’. Poi ho avuto la ‘Bruno V.’ e infine, per quindici anni, la ‘Linda’, finalmente col suo bel radar.”
Dopo gli interminabili viaggi transatlantici, infatti, la carriera in mare di Fis-cioun s’è svolta tutta sull’Adriatico, il mare di casa.
“Io stavo a pescare tutta la notte. Facevo tre o quattro calate. Poi la cernita e il rientro in porto. L’Ines era già lì ad aspettarmi, per correre a vendere alla pescheria. Prima in piazza Cavour, poi alla pescheria nuova del mercato coperto. Ho smesso di andare in mare quattordici anni fa. Le più grandi tavolate le abbiamo organizzate in quei tempi. Il pesce era fresco, garantito!  Con gli amici che gestivano l’hotel Morolli, Emilio e la Lella, siamo stati persino in Trentino per la Marcialonga e a Terni. Le rustide per i bagnini di Viserba e dintorni, poi, non si contano!”

Beh, se non s’era capito… dove c’era fumo di rustida di pesce, di sicuro c’era anche Fis-ciuon…
“Una volta ho dato da mangiare anche a Corrado, il noto presentatore. Sarà stato il 1950/51. Che cena! A dire il vero Corrado mi fece un po’ incazz… perché, nonostante tutto quel ben di dio che avevo preparato, mi disse che avrebbe gradito del coniglio!”

Per concludere le storie in punta di spiedino, Fis-cioun si raccomanda: “Col pesce, si beve solo vino Sangiovese! Il bianco una volta lo davano a chi era ricoverato in ospedale. Io lo uso solo per cucinare i sughi.”

Dopo aver annotato ricette e consigli da veri buongustai, ora invitiamo il nostro amico Fis-cioun a sfogliare l’album dei ricordi andando un po’ all’indietro. Siamo curiosi di sapere qualcosa in più dell’infanzia, dell’adolescenza, del passaggio della guerra, di come si viveva a Viserba in quei tempi.

“Beh, potrei iniziare spiegandovi il perché del mio soprannome. Non è quello della famiglia, infatti i Grossi sono detti Babèn. Quand’ero un bambino abitavo qui vicino, in via Rossini, Avrò avuto sugli otto anni. GLi anziani mi facevano paura dicendo che in queste strade ‘si vedeva’ e ‘si sentiva’ (cioè che c’erano degli spiriti, delle streghe). Alòura mè, par fèm curàg, a ciudèva i occ e a fis-céva (allora io, per farmi coraggio, chiudevo gli occhi e fischiavo). Da quella volta mi hanno sempre chiamato Fis-cioun (fischione). Eravamo otto fratelli. La mamma morì quando io avevo tre anni e c’erano pure un fratello e una sorella più piccoli di me. Ci fece da mamma una delle sorelle grandi. Avìma ‘na miséria c’as magnéma agli urèci (avevamo una miseria, che ci mangiavamo le orecchie). Poi il babbo si risposò con una donna che aveva quattro figli. Sapete, quando si sposavano due vedovi, si faceva una ‘serenata’, per deriderli un po’. Era una tradizione della Romagna. Siccome mio fratello ed io partecipammo a questa cosa, il babbo non la prese molto bene e ci riempì di botte. Com’era Viserba? Beh, intanto c’erano un sacco di locali da ballo, il Kursaal, e tante ville di professori e gente importante. La spiaggia era bellissima: sulla linea del mare c’era solo la pensione Adriatica e qualche villa. Si, proprio come in questa cartolina: dalla spiaggia partivano quattro dighe in verticale, dalle quale noi, ragazzi, ci tuffavamo in mare. Bagnini? C’era Bisugnìn (Pino), fratello di mia suocera. E le tende in tela, coi picchetti piantati sulla spiaggia, che erano da spostare a seconda di come girava il sole. Ai tempi della guerra i tedeschi mi catturarono, con mio babbo e  mio fratello, e ci rinchiusero nella Corderia. Riuscii a scappare attraverso uno strettissimo cunicolo sotterraneo che dalla fabbrica sboccava nella Fossa dei Mulini. Pieno di ferite e sanguinante, ma salvo. Rimasi nascosto per quattordici giorni sopra un albero, a Viserbella, e mia sorella mi mandava qualcosa da mangiare con un cestino legato a una corda. Avevo dato un pugno a un tedesco: guai, se mi avessero trovato! La pensione Adriatica venne bombardata. Alla fine della guerra nelle cantine trovarono quattro tedeschi morti!”.

Ma i ricordi, per fortuna, non sono solo legati a guerra e miseria.

Fis-cioun alleggerisce il suo narrare con un’immagine che ci appare come proiettata su di un grande schermo pieno di luce e di colori.
“I delfini! Quanti delfini passavano al largo! Anche dalla battigia se ne potevano vedere branchi interi. Non erano molto amati dai pescatori, perché distruggevano le reti. Tra l’altro, non so per quale motivo, negli anni Trenta una legge promulgata da Mussolini dava cinquecento lire a chi catturava un delfino femmina. Comunque, per dirvi che spettacolo era la nostra Viserba, in quei tempi uno dei passatempi preferiti dai villeggianti era quello di assistere, anche per una mezza giornata, al passaggio dei delfini vicino alla costa, allo spettacolo dei salti e degli spruzzi che questi producevano nell’acqua limpida!”

Vogliamo finire in rima, così come abbiamo iniziato?
Per chi pensava di trovare Fis-cioun impreparato (in tutti i sensi), ecco la risposta.

 “Sapete – dice strizzando l’occhio con fare birichino – Da tempo ho già scritto la frase che sarà messa sulla mia tomba.”

Qui giace Grossi Alfredo detto Fis-cioun

U’n a né albérgh e né pensioun
Ma se tòt a vléi,
avnéi a magnè ma chèsa sù.
Enca sa’ m magn e’ mi barchèt,
basta cum rèsta e’ mi casèt.

(Non ha né alberghi, né pensioni. Ma se tutti volete, venite a mangiare a casa sua. Anche se mi mangio il mio barchetto, basta che mi resti la mia casetta).


Per la cronaca: essendo nato il 6 giugno 1925, in questi giorni Alfredo compie la bellezza di 85 anni. Auguri da tutti gli amici dell’Ippocampo, Fis-ciuon!
L’Orologio di Talacia
Storia dell’uomo che inseguiva il moto perpetuo
Marzia Mecozzi per Ass.IPPOCAMPOVISERBA

La festa per il 40° anniversario del Gruppo Scout di Viserba, presso la Chiesa di San Martino in Riparotta, è stata favorevole occasione per farsi raccontare, ancora una volta, da Don Danilo, la storia dell’orologio di Talacia e del suo accurato lavoro di recupero, restauro e riposizionamento, questa volta sul soffitto della sagrestia della Chiesa (all’origine era stato quello della stalla di Gennaro Angelini, suo creatore). A naso all’insù, con un ristretto gruppetto di appassionati cultori delle cose arcane e di quelle più strane e dimenticate, siamo restati in contemplazione.
Con me c’erano anche la Donatella Maltoni e la Patrizia Drudi (che per prima mi aveva erudito sull’orologio e indotto alla lettura del libro “L’Orologio di Talacia. Storie e documenti” regalandomene una copia.)
Le sfumature sempre diverse, le impressioni palpabili, la dovizia di particolari, le curiosità che sembrano alimentarsi a vicenda e moltiplicarsi e, soprattutto, la capacità espositiva dell’oratore, sono elementi  coi quali Don Danilo impreziosisce, ogni volta il suo racconto. Ben esposto, fra l’altro, nel volume di cui allego qualche mio pensiero ispirato dalla lettura.


… Il tempo. Immobile di fronte all’Orologio, nella sagrestia della Chiesa di San Martino in Riparotta, osservo l’arcana opera di Gennaro Angelini. Il prodigioso meccanismo, coi suoi quadranti e le sue ruote, le catene e i tiranti, intricata e sorprendente rappresentazione delle meccaniche celesti, nella sua rudimentale essenza toglie il fiato, misterioso come il Pendolo di Foucault nell’omonimo romanzo di Umberto Eco, inquietante allo stesso modo. Sta immoto. Dicono si sia fermato quando il cuore del suo creatore ha smesso di battere.
L’uomo che inseguiva il moto perpetuo, suddividendo le ciclicità dell’Universo in secondi, minuti, ore, decenni, secoli… che, fronteggiando il calcolo astronomico della precessione degli equinozi, della differenza fra anno siderale e anno solare, contava i bisestili… se ne è andato, portando con sé la sua sapienza e quella speranza d’immortalità che forse si nasconde dentro ciascuno di noi.
“Spero che Dio sia con me” diceva “e che mi dia l’immortalità, in modo che quando (l’orologio) si scaricherà, io possa venire a ricaricarlo.”
Ma l’uomo che curava i campi della Parrocchia di Riparotta, che semplicemente viveva osservando l’alternarsi delle stagioni, che, ruvido e robusto, portava sulle spalle il peso di una famiglia grande e del dolore di averne persa parte, che ne sapeva, quell’uomo lì, delle maree, dell’asse di rotazione, dell’attrazione terrestre, della forza di gravità, della teoria della relatività?
Il tempo. Di fronte alla curiosa ‘Macchina’, in questa bella chiesetta di provincia ricostruita dopo la distruzione dei bombardamenti simile all’originale, generazioni di pensatori affiorano alla memoria. Platone, Sant’Agostino, Kant, Hegel… e infine Einstein che lo scopre relativo, a seconda della velocità e del riferimento arbitrario preso in considerazione.
Il tempo, non è un gioco da poco con cui confrontarsi e forse proprio in questa improbabile e misteriosa sfida impari risiede il fascino che avvolge l’Orologio di Talacia e che ha indotto Mario Turci, Don Danilo Manduchi e Federica Foschi - che ha curato anche la pubblicazione “L’Orologio di Talacia. Storie e documenti” prodotta dal Museo degli usi e dei costumi della gente di Romagna in collaborazione con la Parrocchia di San Martino in Riparotta - ad approfondirne lo studio e ad impegnarsi nella sua ricostruzione. L’accurata ricerca ha coinvolto nel lavoro diversi testimoni, amici e parenti di Gennaro Angelini detto Talacia. Le interviste, riportate fedelmente nel testo, a ruota libera, nello stile del linguaggio parlato, donano al saggio quel realismo che fa da sfondo autentico alla ‘Macchina del tempo’. Accanto alle testimonianze, una panoramica storica chiara e ben contestualizzata mette in fila le fasi di un’esistenza non banale, capace di elevarsi dalla terra e meravigliare il mondo. Gli articoli apparsi sui giornali degli anni Cinquanta, i documentari dell’Istituto Luce, le visite dalla Svizzera… dimostrano infatti tutta la curiosità e lo stupore degli uomini ‘colti’ di fronte a questo marchingegno di legno e ruggine, diabolico nella sua elementare complessità, con il fascino ancestrale e misterioso di un calendario Maya. Lodevole l’impegno dei ricercatori, cui si deve soprattutto il merito di aver riportato ‘a casa’ l’Orologio di Talacia.

*Col consiglio di leggersi il bel volumetto di Federica Foschi, ma soprattutto di andare di persona alla Chiesa di San Martino in Riparotta a vedere l’oggetto di tanta meraviglia.